“Nel bene o nel male, purché se ne parli”, per anni questo è stato il motto utilizzato dagli esperti di marketing per giustificare una comunicazione aggressiva, provocatoria, a volte, al limite della decenza; concepita solo perché se ne parli, anche solo per criticarla, perché parlandone male se ne sta comunque parlando, il che vuol dire attirare l’attenzione su ciò che si critica, aumentando la notorietà del brand comunicato.
Viene anche chiamata shockvertising.
È in grado di soddisfare i due requisiti chiave di una buona comunicazione: la capacità di distinguersi ed attrarre l’attenzione, il ricordo pervasivo e duraturo del suo messaggio.
Non è immune da rischi, i più frequenti: il blocco mentale del messaggio perché considerato esagerato, eccessivo, non credibile; l’oblio del brand sovrastato dalla provocazione, per esempio, molti dei non più giovani ricordano ancora il lato B di una giovane modella che diventerà famosa come showgirl e presentatrice (Michelle Hunziker), pochissimi la marca pubblicizzata (intimo Roberta).
Molto utilizzata negli anni 80 e 90, soprattutto nei settori, come moda, abbigliamento, profumi, dove la provocazione era coerente con il posizionamento, la shockvertising permette di accrescere la notorietà del brand anche con budget minimi.
Memorabili sono le campagne di Oliviero Toscani per Benetton.
Oggi è poco utilizzata nel main stream ed è appannaggio di alcuni settori, come il no profit, per smuovere le coscienze e dare un pugno nello stomaco all’audiance.
Cosa è la brand awareness?
Nel lessico comune, awareness viene tradotta come conoscenza o notorietà. Il suo senso è però più profondo e fa riferimento alla consapevolezza, cioè ad un processo cognitivo che associa la pura conoscenza ad una gamma di processi comportamentali conseguenti, tra questi, il più auspicato, è il trasformare il brand nella prima opzione di scelta in fase di acquisto di un prodotto o servizio.
Quali sono le metriche utilizzate per misurare la brand awareness?
Come si può intuire, la brand awareness è qualcosa che si trova nella testa del consumatore. Per misurarla si deve intervistare l’audience di riferimento oppure la si deve dedurre attraverso l’osservazione empirica dei comportamenti e delle conversazioni.
Le metriche hanno nella Piramide di Aaker il modello di riferimento più diffuso. Alla base della piramide si trova l’assenza di conoscenza, salendo i livelli di conoscenza si fanno a mano a mano più approfonditi fino a raggiungere il culmine che corrisponde al “top of mind”.
In una ricerca di mercato classica, si deve partire dalla top of mind (quale è la prima marca che ti viene in mente?), per passare poi alla notorietà spontanea (ce ne sono altre? e poi? e poi? …esaurendo le marche ricordate spontaneamente), fino alla conoscenza sollecitata (tra queste marche che ti leggo ve ne è qualcun che conosci anche solo per averne sentito parlare?).
Riassumendo, quindi, si possono avere 4 diversi livelli di awareness: top of mind, spontanea, sollecitata e non conoscenza. L’obiettivo di ogni marketing manager è di aumentare sempre più la percentuale di consumatori che citano il proprio brand come prima marca ricordata del mercato.
Perché è importante la brand awareness?
Molto spesso le strategie di comunicazione, sbagliando, si concentrano sulla parte bassa del funnel, quella delle conversioni, quando il cliente è prossimo alla scelta e all’acquisto del prodotto, trascurando la parte alta, quella che si occupa di posizionamento e che contempla gli investimenti e le attività finalizzate a creare distintività ed esclusività, sottolineando i point of difference rispetto ai concorrenti.
La conversione a cliente non può prescindere dal valore, tangibile e intangibile, del prodotto, da una sua immagine attraente e, in generale, dalla percezione che si è riusciti a costruire nella mente delle persone.
Si tratta di strappare il brand dall’anonimato facendo leva sulle sue caratteristiche, declinandole in benefici e fornendo ai clienti i motivi per scegliere proprio quel prodotto o quel servizio.
I brand con la più alta notorietà, soprattutto se top of mind, hanno una base clienti più fedele, rotazioni più elevate, sono in grado si spuntare prezzi premium e garantiscono margini più elevati. La brand awareness è, perciò, importante perché incide direttamente sulla redditività del prodotto e ne determina il successo o l’insuccesso.
Quale è il nuovo contesto di riferimento?
La comunicazione deve essere al passo con i tempi; non può prescindere dall’attualità e deve tener conto dei cambiamenti sociali e delle mutate sensibilità. Ancora, deve essere attenta all’evoluzione tecnologica e deve essere consapevole di come l’omnicanalità abbia costruito interazioni di touch point fisici e digitali, trasformandoli in un vero e proprio sistema interconnesso.
Il Covid e l’evoluzione del contesto politico, economico e sociale generale (invasione dell’Ucraina, crisi energetica ed inflazione per citarne alcuni) hanno accelerato il cambiamento, aumentando la necessità di un approccio più emozionale ed esperienziale.
L’attenzione all’ambiente e ai temi sociali, hanno accresciuto la necessità di comunicare il purpose societario e di mettere al centro delle strategie aziendali temi di responsabilità sociale e di sostenibilità.
Per creare consapevolezza e mettere in luce la value proposition, per parlare al target prescelto con il giusto tono di voce e nel momento più opportuno, per attrarre i clienti e conservarli nel tempo è necessario mixare storytelling, brand purpose, posizionamento e customer experience. Le immagini e il linguaggio devono essere rispettosi, diretti, ma non disturbanti, espliciti ma non maleducati. Infine, si deve sempre ricordare che la comunicazione viaggia in un sistema aperto, solo in minima parte controllato dall’azienda, nel quale vi è piena condivisione di valutazioni e giudizi dell’audience (word of mouth).
In questo articolato scenario, i messaggi provocatori, aggressivi e scioccanti non sono certo i più indicati. Non solo rischiano di creare angoscia, portando ad un rifiuto e al blocco del messaggio, ma sono esposti a reazioni negative in grado di scatenare vere e proprie campagne social contro dannose e contro producenti.
In sintesi, meglio evitare la shockvertising. Se proprio non si vuole farne a meno, meglio utilizzarla giocando più sull’ironia che sulla provocazione.
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